La domenica dopo Pasqua è la Domenica della Divina Misericordia, anche festa della nostra Unità Pastorale, che alla Divina Misericordia è intitolata. Il Vangelo che la liturgia propone è ciò che avvenne il giorno della Risurrezione e poi otto giorni dopo, quando Gesù appare nuovamente ai discepoli e finalmente anche Tommaso, che non era presente al primo incontro con il Risorto, può incontrare Gesù e fare la professione di fede sulla quale si chiude il Vangelo di Giovanni: ‘Mio Signore e mio Dio’. Proprio sul rapporto tra fede e incredulità ha riflettuto padre Placido nell’omelia; ecco le sue parole:
“Come sono ricchi i Vangeli di questo tempo pasquale! Sono densi di umanità; un’umanità anche sofferente, in difficoltà, incredula. Ma un’umanità che c’è, è presente, vuole esserci. Alle volte ci è chiesto solo questo: di esserci. Magari non siamo tanti, perché è difficile perseverare anche pochi giorni con il Risorto, desiderare la sua presenza, stare con Lui anche se non siamo ancora del tutto convinti.
È questa la vicenda narrata nel brano del Vangelo di questa domenica: il Cristo appare ai discepoli la domenica della Risurrezione e poi ancora otto giorni dopo, come oggi, quando appunto anche per noi risuonano queste parole. Tra i discepoli radunati per celebrare insieme viene il Signore. Dice l’Apocalisse che è vestito di bianco, con abito lungo, sacerdotale, e una fascia d’oro, simbolo regale. Santa Faustina Kowalska lo vedrà proprio così e vedrà anche emanare da Lui due raggi, il sangue e l’acqua, immagine dell’amore trionfante e misericordioso.
Ma questo Cristo risorto ha una particolarità: ha ancora le mani, il costato e i piedi piagati. Forse pensavamo che la Risurrezione guarisse le ferite, pensavamo anche che la fede ci avrebbe salvato da un sacco di problemi nella vita o che ci avrebbe reso davvero più buoni. E invece sembriamo sempre gli stessi. Ma attenzione: le ferite del Risorto ci sono, è vero, però sono luminose. Anche le nostre ferite restano e nessuno ce le toglie, nessuno ti toglie di dosso la vicenda umana, neanche la fede; nessuno viene a ridurre la sofferenza per quel lutto, per quel limite, per quell’ingiustizia che hai subito. Quella ferita rimane. Ma se vuoi alla luce del Risorto diventa luminosa, non si infetta, non ti fa venire più la febbre, non sei più infermo, sei ferito, ma credente.
Certe ferite, è vero, ci fanno stare male e ci fanno arrabbiare, magari ce la prendiamo anche con il Signore: perché mi succede questo? Stai con Lui e quella ferita non ha più il potere di ucciderti, di farti soffrire in quel modo privo di speranza. La tua ferita emana luce, una luce che non è tua, perché è la luce del Risorto. Giuliana di Norwich vide che avremo anche nell’altra vita le nostre ferite, i nostri limiti resteranno; ma splenderanno come motivo di vanto: ce l’abbiamo fatta, nonostante fossimo così feriti e incapaci e miserabili. Ce l’abbiamo fatta. O meglio: ce l’ha fatta Lui in noi.
Ci meravigliamo tanto di essere increduli, ma quanta incredulità c’era già intorno a Gesù: le donne agitate, Pietro che vede ma non crede… quanta incredulità, quanta fatica a credere ciò che ci salva. Ma benedetta incredulità! Oggi o si è disinteressati alla fede oppure c’è quel fanatismo religioso che è adesione alla fede di chi non si fa più nessuna domanda, di chi non vuole più sentire ragioni, ha sempre la risposta pronta, non rispetta le piaghe gloriose del Signore. Anche Tommaso è incredulo, ma c’è, desidera vedere. E l’incontro con il Risorto lo guarisce.
Il Maestro, infatti, è anche sempre il buon pastore, perché cerca la pecorella smarrita. Tommaso si è perso, Tommaso non vuole credere, Tommaso mette condizioni: se non vedo, se non tocco, se se se… ma Gesù Cristo buon pastore va a cercarlo e lo richiama: metti qui il tuo dito, metti la mano nel costato! Smettila di essere incredulo! Questo è credere: non significa che non devi più avere dubbi oppure che supererai tutto con facilità! Credere è un atteggiamento di fondo: fidati, abbi fede! Quando senti l’incredulità cercami, stammi vicino! Questo è l’atteggiamento giusto! Ed è proprio l’atteggiamento finale di Tommaso, che dice: ‘Mio Signore e mio Dio’.
Gesù fu chiamato in tanti modi: profeta, messia, maestro; Tommaso, alla fine del Vangelo, fa questa professione di fede: mio Signore e mio Dio. Quando il sacerdote alza l’ostia consacrata facciamo anche noi questa professione di fede: mio Signore e mio Dio! Nei momenti difficili diciamo: mio Signore e mio Dio! La forza di quelle piaghe luminose ci guarisce e ci conforta!
Il Vangelo si chiude con una beatitudine: beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno. Amici cari, in questa domenica questa beatitudine ce la portiamo a casa: essere beati non è aver risolto tutti i problemi, ma aver trovato la direzione giusta per risolverli, che è la fiducia nel Cristo. Tommaso prima è pensieroso: ma io l’altra volta non c’ero, se ci fossi stato sarebbe stato diverso… quanta parte anche della nostra vita è amareggiata da questi pensieri: ah, se quella volta avessi fatto diversamente! Ma il Cristo, ci dice l’Apocalisse, è l’Alfa e l’Omega, è presente sempre ed era presente anche quella volta in cui non è andata come volevi; è presente alla fine del tuo percorso ed è presente qui, adesso!
Non essere incredulo, affida tutto a Lui! Questa beatitudine ce la portiamo a casa! E sentiamoci allora veramente incontrati dal Risorto nella luce semplice, buona e calda delle sue piaghe luminose!”.