Natale: sperare l’insperabile e scoprire che la speranza non resta delusa

Messe solenni, pur nel rispetto delle restrizioni contro la diffusione del contagio, quelle del giorno di Natale nella nostra Unità Pastorale, e Messe nelle quali il parroco padre Placido ha ripreso il discorso iniziato nelle omelie della Notte gloriosa in cui la Vergine Maria ha dato il mondo il Salvatore.

Il parroco, infatti, riprendendo le parole di Isaia proposte nella prima lettura, in cui il profeta offre l’immagine dei piedi di un messaggero di pace, che corre per annunciare la salvezza (cfr. Is 52,7), ha fatto notare come “questo messaggero di pace e di gioia presentato da Isaia appartiene a un popolo che non ha avuto un’esistenza facile, un cammino lineare, su una via pianeggiante”. Tutt’altro, in effetti, perché quel popolo è quello ebraico, che, tra gli altri dolori, ha dovuto subire anche il dramma dell’Olocausto nemmeno un secolo fa. Da qui la riflessione di padre Placido: “Proprio dal popolo ebraico, dai nostri fratelli maggiori, ci viene l’annuncio di pace, e questo ci dice che la pace può venire solo da una storia di fatiche e lotte”.

Questo, però, non vale solo nella parole di Isaia, ma avviene anche oggi: “Monsignor Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, ha raccontato di una città di Betlemme dove tutto è chiuso, dove non ci sono pellegrini, quest’anno; ma ciò non ha impedito a un piccolo gruppo di cristiani di Palestina di riunirsi: sono proprio loro ad annunciarlo: è nato!”. Un annuncio che viene proprio da una terra affaticata, i cui abitanti vivono da sempre tensioni internazionali fortissime; ma proprio questo ha fatto dire al parroco, riecheggiando appunto Isaia: “Che belli i piedi di colui che, pur ferito, è capace di dire pace, è in grado di dire: Lui ci ama!”.

In fondo, come già diceva il parroco nelle omelie della Notte di Natale, “questo è l’annuncio del Natale, che Dio ci ama, e la comunità cristiana ha il dovere di dirlo al mondo: coraggio, abbiate fede, abbiate speranza!”.

In un contesto come questo, questa speranza evidentemente non è quella meramente umana: “Nell’Avvento – ha notato padre Placido – abbiamo atteso l’inattendibile, abbiamo sperato l’insperabile: che Dio si facesse uomo. Qualcosa di impensabile, appunto, e che tuttavia si è realizzato. E proprio questa è la vera speranza: quella che sa attendere l’insperabile. Finché la speranza, infatti, è commisurata alle nostre capacità umane, quella non è la speranza cristiana, non è la speranza divina”.

La speranza cristiana è dunque quella di Dio, speranza dell’insperabile, e che però si realizza nella parola definitiva, come già sottolineava il parroco nella Notte di Natale. Questa parola definitiva è il Verbo di Dio, che si è fatto carne: “Se Dio ha voluto passare dalle tante parole all’unica Parola, è perché vuole che ascoltiamo solo questa Parola, appunto. Il Padre l’ha pronunciata nell’assoluto silenzio, e così ha creato l’universo; lo Spirito l’ha scritta nel grembo della Madre, incarnandosi nel Bambino Gesù”.

Se è così, ha aggiunto padre Placido, “è lì, nel grembo della Madre, che questa Parola va letta, e cioè dentro l’umanità, dentro questa nostra storia, fatta di acciacchi, di fatiche, di peccato. Non possiamo cercarla altrove, perché se la cerchiamo altrove non viviamo l’umiltà che quella stessa Parola, per prima, ha scelto”.

Di qui l’esortazione del parroco: “Leggiamo questa Parola nel grembo della Vergine Madre, sfioriamola con le dita nella mangiatoia di Betlemme, e guardando a quella vita impariamo la sacralità della nostra esistenza“.

La conclusione dell’omelia di padre Placido è, conseguentemente, l’augurio di un Natale sereno: “Questo sia il Natale di ognuno di noi, nella consapevolezza, da sentire quest’anno più che mai, che quanto più buia è la notte, tanto più splende la luce del Signore: benedetta sia questa luce che Dio ci ha messo nel cuore! Portiamola e doniamola con fede, mostrandola con un sorriso, rendendola presente in un gesto d’amore! Questo è il Natale! Sia per noi Natale ogni giorno!“.