Nella Quinta Domenica di Pasqua padre Placido ha ripreso il discorso iniziato nella festa precedente, sottolineando il cammino che ci invita a fare la liturgia nel seguire i brani del Vangelo scelti per ogni Messa domenicale: “Quella che ci fanno compiere i Vangeli di queste domeniche è una sorta di progressione nel nostro cammino pasquale: dopo le domeniche in cui si è insistito sulla realtà della Risurrezione, con il Gesù risorto che arriva a mangiare con i suoi, abbiamo avuto la domenica del buon pastore, quando abbiamo compreso che il Risorto va seguito appunto come le pecore il loro pastore; e infine oggi la domenica della vite e dei tralci viene a dirci che non solo il Risorto devi seguirlo, ma devi anche vivere con lui, essere unito al mistero”.
Ma cosa significa essere uniti al Risorto? “È un mistero grande che la Parola di Dio ci dica che siamo tralci della vite che è il Cristo, perché significa che o sei unito alla vite oppure non puoi fare nulla: tu sei costitutivamente parte di questa realtà, della vite che è il Cristo, e tutta la tua forza, la tua creatività e la tua fecondità sono chiamate a essere inserite in questa realtà infinita che è Dio. E perché questo possa avvenire Dio in Gesù si è fatto essere umano, affinché noi possiamo essere inseriti in lui: il nostro Dio ha attraversato gli spazi infiniti che lo tenevano lontano da noi e si è fatto uomo, realtà concreta, terra, perché trovassimo in lui la nostra radice, il nostro tronco, il nostro sostegno, la nostra linfa vitale“.
In fondo, quindi, l’azione è tutta di Dio e per essere uniti a lui dobbiamo solo accogliere che questa infinita realtà è già in essere: “Non dobbiamo inventarci grandi cose: siamo già tralci! Ma dobbiamo stare uniti a lui e questa unità non è affatto astratta, bensì sorprendentemente concreta: negli Atti degli apostoli si dice che ‘Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui’ (At 9,26): Saulo aveva visto il Cristo, aveva avuto una grandissima rivelazione personale, era stato gettato a terra, e nonostante questo, e anzi proprio per questo, cerca di unirsi ai discepoli: anche la più grande rivelazione personale non è niente, anche se sei san Paolo devi stare in una comunità di Chiesa. Allora dobbiamo accettarla anche noi questa mediazione, lo stare con gli altri, il pregare insieme, perché Dio stesso ha voluto che fosse così importante; e il rischio più grande per un cristiano è ripetere sempre ‘io, io, io’, illudersi di poter avere una vita spirituale piena fuori dalla comunità“.
La comunità, dunque, cioè la Chiesa, come necessaria via di santa unità, ma senza cadere nell’insano orgoglio e nell’errata esclusione: “Attenzione: qui non si sta dicendo che fuori dalla comunità non esiste spiritualità: domenica scorsa Cristo ci ha detto chiaramente che egli ha pecore che non sono di questo ovile e che anche quelle egli cura, e infatti ci sono persone che non hanno mai visto una chiesa cattolica e ci battono dieci a zero in fatto di spiritualità, perché Dio agisce sempre dove vuole e trova sempre spazio. Non è questa dunque la questione, bensì il rischio sottile di voler fare a meno degli altri, di ripetere quelle parole illusorie per cui ‘in chiesa ci vado quando mi sento’. In realtà noi qui siamo un ‘centro innesti’: questo è la parrocchia, noi facciamo innesti. Con una differenza fondamentale rispetto agli innesti tradizionali: normalmente sull’albero si fa l’innesto di una pianta più pregiata, mentre qui, al ‘centro innesti parrocchiale’, qualunque pianta, per quanto povera essa sia, noi la innestiamo sulla vite vera, e lo facciamo perché porti molto frutto“.
Ecco dunque lo scopo di questa unità che è la Chiesa: innestarci in Cristo: “Il Padre ha voluto che il nostro centro innesti fosse così, e l’ha voluto così perché poi se ne prende cura lui di quegli innesti; è come se ci dicesse: voi innestateli nel Cristo questi tralci, e poi ci penso io. Questo è davvero un messaggio bello, perché ci mostra che è Dio che agisce, come il Vangelo dice chiaramente ad esempio rispetto alla potatura: è il Padre che pota, e il verbo greco usato per indicare questa operazione è non a caso kathàirein, che è una parola che contiene la radice del purificare, del santificare, tanto che il latino traduce con purgare, a dirci che non è un’operazione fatta dall’esterno questa potatura, ma riguarda l’interno, è come una purificazione: se ti lasci purificare allora la linfa può scorrere in te, e per purificarti devi tagliare: non puoi andare a camminare in montagna portandoti dietro tutti i mobili di casa. Ma questa purificazione, appunto, è nelle mani del Padre, e proprio in questo il Padre è glorificato, e tale glorificazione avviene nel momento in cui ognuno di noi porta frutto”.
Qualcuno forse potrà dire che questi frutti non si vedono, o si vedono poco; ma spesso si tratta semplicemente di sapere dove guardare: “Non dimentichiamoci di quella nostra parte che sta portando frutto: quando si crea armonia in famiglia, quando ci si preoccupa dell’altro, quando si fa un po’ di bene, quando nel cuore nasce il desiderio di pregare o di ascoltare una parola buona detta da Dio: questo è il frutto! Proviamo ogni tanto a visualizzarlo questo frutto, a vederla questa santa unità nei Sacramenti, nella forza della Parola di Dio, nel bene delle nostre vite. Dio sempre passa, purifica, riscalda il cuore e così ci fa portare molto frutto. E questa, ricordiamolo sempre, non è la nostra gloria, ma la gloria del Padre: a lui tutto va restituito con santa umiltà”.