Il Tempo di Pasqua si conclude con la solennità di Pentecoste, che più che la fine di questo tempo liturgico è il suo fine: “Il cinquantesimo giorno dopo Pasqua – ha affermato padre Placido all’inizio della sua omelia – è il compimento di questo tempo: con questa solennità otteniamo in dono da Dio una forza che ci può veramente consolare, illuminare, rappacificare“.
Da cosa ci debba rappacificare questa forza padre Placido l’ha spiegato a partire dal famoso episodio biblico della torre di Babele: “Era inevitabile che un’umanità superba, che voleva innalzarsi fino al cielo, finisse per non parlare più la stessa lingua: quando l’orgoglio e la presunzione prendono il sopravvento non si parla più la stessa lingua; i violenti magari possono anche riuscire a mettersi d’accordo per un po’, ma poi finiscono sempre per litigare fra di loro. Così questa umanità dispersa aveva bisogno di ritrovare una lingua comune“.
Quella lingua comune è arrivata proprio con la Pentecoste: “Quel giorno gli apostoli cominciarono a parlare in un modo che era comprensibile a tutti, ma non dobbiamo fermarci troppo sul prodigio, quanto piuttosto comprenderne il significato profondo: Pentecoste ci insegna che se abbiamo un cuore pacificato, reso umile dallo Spirito, noi troviamo la via e il modo di capirci, noi riusciamo a esprimerci in modo comprensibile”.
Quando ci si riferisce al parlare in modo da comprenderci, però, non si deve pensare alla sola voce, bensì all’intera persona: “Noi, ormai, non abbiamo più bisogno di arrivare al cielo con l’opera delle nostre mani, perché noi stessi ci sentiamo opera delle mani di Dio, e chi si sente plasmato da Dio non ha bisogno più di dimostrare nulla, perché guardando se stesso dice: ecco l’opera di Dio!“.
Le conseguenze, come già si intuisce, sono come sempre molto concrete: “Cerchiamo di essere grati e coerenti con quest’opera. Questa festa, che ricorda al tempo stesso la dispersione e la riunificazione, diventa per noi il segno di quella unità che Dio vuole creare in noi stessi. Compimento della Pasqua, infatti, è un’umanità nuova, che ci è stata conquistata dalla sofferenza del Cristo paziente, che ci è stata presentata dal Cristo risorto, che ci è stata ottenuta dal Cristo ascendente al cielo. Proprio per questo lo Spirito ora può scendere e diffondersi. Fino a quel momento, dice infatti Giovanni, non c’era ancora lo Spirito Santo, perché Gesù non era ancora stato glorificato”.
Ora che il Cristo è morto, risorto e asceso al cielo, lo Spirito scende, e a noi sta dunque accoglierlo: “Con tanta semplicità crediamo alla forza dello Spirito. Egli, purtroppo, è il grande dimenticato: quando studiavo teologia in seminario uscì uno studio che mostrava come fino a prima del Concilio si potevano mettere insieme migliaia di volumi di teologia senza mai trovare parole sullo Spirito Santo! Eppure Paolo presenta tutta la vita del cristiano come una vita guidata, sostenuta, incoraggiata, animata proprio da questo grande dimenticato, lo Spirito Santo. Chiediamo allora allo Spirito Santo di farci capire quanto è importante la sua presenza in noi stessi, nelle nostre famiglie, nella comunità: senza lo Spirito non ci capiamo più e non troviamo più la via per parlare una sola lingua con il Nostro Signore. Riserviamoci attimi di silenzio e con tanta fiducia invochiamo personalmente lo Spirito Santo come dono per noi stessi, per le nostre famiglie, per la nostra comunità, per la Chiesa e per il mondo intero!“.