Famoso è l’episodio raccontato nella prima lettura della Terza Domenica di Quaresima: Mosè si avvicina al roveto ardente e in quel roveto gli si manifesta Dio. Su questo fondamentale racconto si è soffermato padre Placido nella sua omelia; ecco le sue parole:
“Come è importante e copiosa di frutti la Parola di Dio anche oggi! Prendiamo da essa qualcosa, senza essere troppo golosi… l’importante è prendere qualcosa che ci faccia bene e ci aiuti! È bellissimo l’episodio del roveto e di Mosè. Mosè arriva al Monte di Dio, l’Oreb, il Sinai, nel deserto, lì dove ora c’è un monastero intitolato a Santa Caterina, dove si arriva dopo un cammino di salita che di solito si comincia di notte, per arrivare in cima, sul monte, all’alba.
Quando Mosè arriva lì è già a due terzi della propria vita. La Scrittura divide infatti la vita di Mosè in tre parti: quarant’anni in Egitto alla corte del faraone; quarant’anni come pastore dei greggi di Ietro, suo suocero, insieme alla moglie Zipporah e al figlio Gerson; e infine altri quarant’anni di traversata del deserto. Sappiamo che il numero 40 non va preso alla lettera, anche perché altrimenti Mosè sarebbe vissuto 120 anni! Dobbiamo piuttosto considerare che 40 è il numero della pienezza e allora il senso è che Mosè pienamente è stato figlio del faraone, pienamente è stato pastore, pienamente ha attraversato il deserto.
Quando dunque Mosè arriva al Sinai ha già trascorso due terzi della propria vita, in altre parole ha più vita dietro di sé che davanti a sé. E questo è un tempo spirituale propizio: in quel momento smetti di preoccuparti delle sciocchezze e cominci a focalizzare l’essenziale, il bersaglio ti appare più chiaro, la mano è più ferma, la freccia scocca più diritta; è un tempo santo e benedetto, che non va sciupato né commiserato.
Mosè in questa situazione sperimenta una cosa meravigliosa, come è per tutti quelli che hanno più vita dietro di sé che davanti a sé: si ha un po’ di tempo. E in questo tempo Mosè si ferma davanti a un fatto in realtà naturale, perché in quel deserto ci sono proprio questi rovi che bruciano per autocombustione. Nulla di speciale, quindi, apparentemente; ma lì c’è Dio. Perché Dio, dovendosi manifestare, sceglie una pianta così misera? I mistici ebrei dicono che il roveto è così umile che il suo legno non è mai stato usato per fare le statuette degli idoli; in altre parole, più vai in alto e più sei a rischio di idolatria. Dunque il rovo è il luogo in cui Dio si rivela e Mosè, fermandosi, crea le condizioni per il miracolo.
Da lì Dio gli grida: Mosè, non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo su cui stai è un luogo santo! Ovviamente non si sta parlando della Terra Santa, bensì della terra di cui è fatto Mosè. Dio dice: Mosè, tu sei fatto di terra santa, tu sei un luogo sacro. Lì, ai piedi di quel monte su cui riceverà le Tavole della Legge, Mosè capisce di essere tempio di Dio.
Non può imparare niente se prima non capisce chi è. E non può nemmeno fare nulla. Mosè voleva liberare il suo popolo dalla tirannia del faraone, lui che era tra i più importanti servitori del faraone; faraone per i mistici ebrei è sinonimo di orgoglio, che è come dire che Mosè serviva l’orgoglio, tanto che era riuscito ad ammazzare un egiziano: chi serve il faraone al massimo ammazza, ma non libera nessuno, perché nessuna guerra può liberare niente.
Mosè dalla sua povertà può capire che Dio è ‘Io Sarò Chi Sarò’, come egli si presenta. Sono verbi al futuro: sarò chi sarò, sarò chi vorrò essere, sarò lì dove tu sarai. Ci sono decine di traduzioni, grazie a Dio non si è mai trovata una traduzione definitiva, perché il nome di Dio mantiene il suo valore assoluto. Mosè riparte nel suo cammino, che lo porterà finalmente a creare un esodo di liberazione, un percorso di libertà, sottraendo i suoi fratelli e sorelle al dominio di faraone, al dominio dell’orgoglio. Si tratta di un processo spirituale e perciò ci riguarda: come dice San Paolo, tutti sono stati sotto la nube, tutti hanno attraversato il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè, tutti bevevano la bevanda spirituale da una roccia che era il Cristo.
E proprio il Cristo ci dice l’ultima parola: o ci convertiamo o periremo tutti allo stesso modo, che significa cambiare mentalità, smetterla di pensare che se c’è una disgrazia è Dio che manda i castighi. Se non cambiamo mentalità periremo tutti allo stesso modo, cioè vivremo vita e morte senza capirne il senso, questa è la disgrazia: non capire cosa siamo venuti a fare qui.
Chiediamo al Signore che ci doni sempre di abbeverarci a quella roccia che è il Cristo: nel deserto hai una roccia che ti segue, il Cristo da cui ricevi tutto ciò di cui hai bisogno”.