Nella Seconda Domenica di Quaresima il Vangelo è quello della Trasfigurazione; ma prima di questo monte la liturgia ne presenta un altro, quello su cui sale Abramo per sacrificare il figlio Isacco. Su questi due monti si è concentrato padre Placido nella sua omelia; ecco le sue parole:
“Domenica scorsa eravamo nel deserto con Gesù: dobbiamo prendere sul serio il santo Vangelo quando ci guida e ci sostiene e ci porta lì dove il Cristo ha vissuto la sua vita umana profonda, perché possiamo farne esperienza, sperimentare il deserto con la sua solitudine e la sua fatica, ma anche con le sue consolazioni (‘gli angeli lo servivano’). E così oggi il Vangelo ci porta a salire col Cristo sul monte.
I monti nella vita di Gesù sono tanti: c’è questo della Trasfigurazione, c’è il monte delle Beatitudini, dove egli proclama il suo progetto di vita, e ci sarà il monte del Calvario, dove suggellerà con il dono della vita la verità di ciò che ci ha insegnato. È importante lasciarsi portare sul monte nello spirito, perché è una questione spirituale: noi davvero possiamo salire col Cristo e sperimentare la forza del suo essere trasparenza del Padre. Davvero in quell’uomo che sale noi possiamo cogliere lo splendore della divinità e restare attoniti e ammutoliti. Come sono povere le nostre parole su Dio, come sono miseri i nostri discorsi religiosi! La verità è una luce abbagliante e noi solo per poco riusciamo a sostenerla.
Dobbiamo anche notare che oggi sono due gli uomini che salgono sul monte. Il primo è Abram, il cui nome significa ‘padre delle moltitudini’, ma che alla fine del suo percorso diventerà Abraam, che vuol dire ‘padre dall’alto’. Abramo – non dimentichiamolo – è colui che a casa sua aveva il padre che costruiva idoli, stava bene; ma proprio Abramo deve lasciare gli idoli, la casa paterna, e iniziare il suo cammino. Solo allora potrà portare il Dio dall’alto tra le moltitudini, questo è il suo compito. Ma in questo cammino Abramo conosce questa tappa incredibile, fortissima: Dio gli chiede di rinunciare a quel figlio, frutto della sua preghiera, della sua fede, frutto di un dono miracoloso di Dio, sul quale basava tutto il suo avvenire.
In Abramo anche noi siamo saliti su quel monte e in Abramo, se siamo con lui nella fede, è data anche a noi la forza di dire: mi fido di te, Signore, al di là di ciò che io produco e possiedo per essere tranquillo. È una fiducia verticale, che sa prescindere da tutti i motivi che umanamente ci possono far star sereni: la mia pace è Dio, la mia serenità è in Dio. Solo allora le cose terrene tornano nel loro giusto valore. Certo la fede di Abramo ci sembra inarrivabile: la lettera agli Ebrei dirà che Abramo ‘sperò contro ogni speranza’, cioè anche davanti alla prospettiva della fine del figlio, finendo il quale era finito tutto, lui sperimentò una speranza che andava al di là della morte – è l’inizio della fede nella risurrezione: fu come un segno, dice sempre la lettera agli Ebrei, perché il figlio morto in realtà non è morto, è vivo ed è causa di speranza.
Notiamo però ancora una cosa: Abramo saliva e pensava che Dio potesse chiedergli di uccidere il figlio; è chiaro che stava ancora purificandosi nella sua obbedienza, perché Dio non chiede mai di uccidere, tant’è che – dice la Scrittura – Abramo ‘prese con sé il figlio’; e poi il Vangelo dice che ‘Gesù prese con sé Pietro Giacomo e Giovanni’. Da chi vogliamo essere presi? Con chi vogliamo salire il monte? Certo Abramo ci è padre nella fede e prima o poi nella vita devi decidere se contano più le cose in cui hai fiducia o se la tua fede è in Dio, ma è certo che quando il Cristo ci prende con sé e ci porta sul monte non è per chiederci di sacrificare qualcosa, bensì perché contempliamo la grandezza della sua bontà.
Lasciamo stare tutti i calcoli, che possono essere alle volte anche necessari e utili, ma non è lì la vera ragione della vita. Siamo purificati in Abramo e glorificati nel Cristo e la sua luce diventa la nostra luce. Questo è il cammino della Quaresima e oggi noi ne viviamo una tappa fondamentale”.