Nel brano di Vangelo scelto per la XXIII Domenica del Tempo Ordinario Gesù guarisce un sordomuto e padre Placido nell’omelia ha spiegato che ovviamente l’episodio dice qualcosa a noi; ecco le sue parole:
“Effatà, cioè ‘apriti’. Così dice Gesù al sordo nel brano di Vangelo della liturgia di oggi. Si tratta di una delle pochissime parole in aramaico che i Vangeli ci hanno conservato. Gesù parlava ebraico, un po’ di greco, un poco latino, ma nella sua vita quotidiana usava l’aramaico, perché l’ebraico ormai era diventata quasi soltanto lingua liturgica, un po’ come è successo a noi con il latino, da lingua parlata a lingua liturgica.
Questa parolina aramaica, effatà, ‘apriti’, è preziosa, perché dentro c’è tutta la forza dell’azione di Gesù nell’aprire i nostri orecchi e nello sciogliere la nostra lingua. Se non ascoltiamo la Parola nuova, non siamo in grado di dire una parola nuova. Infatti, quando dice ‘effatà, apriti’, Gesù vince una sordità che va al di là del limite fisico, perché Gesù guarisce il sordo che è in noi. Perché infatti Gesù guarisce questo sordomuto nel Vangelo? Gesù non ha guarito molti sordomuti, perché si tratta di un segno per dire che tutti abbiamo bisogno di vincere la nostra sordità, perché ascoltiamo solo ciò che ci fa comodo e non ascoltiamo ciò che è importante; e diciamo sempre le stesse cose e non sappiamo dire una parola nuova, perché pensiamo di vedere e invece siamo ciechi.